Inquisition – “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult” (1998)

Artist: Inquisition
Title: Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult
Label: Sylphorium Records
Year: 1998
Genre: Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Unholy Magic Attack”
2. “Those Of The Night”
3. “The Initiation”
4. “Empire Of Luciferian Race”
5. “Summoned By Ancient Wizards Under A Black Moon”
6. “Journey To Infernukeorreka”
7. “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult”
8. “Mighty Wargod Of The Templars (Hail Baphomet)”
9. “Solitary Death In The Nocturnal Woodlands”
10. “Hail The Cult”

La Colombia a cavallo degli anni ’80 e ’90 è, per quanto sia banale dirlo, uno dei luoghi che meglio incarnano l’abusato concetto d’Inferno sulla terra: stritolata dagli scontri armati tra formazioni paramilitari insurrezionaliste, potentissimi narcotrafficanti ed il fragile quanto corrotto governo centrale. In un simile angolo di mondo, dove prevaricazione e sangue versato sono compagni sempre presenti nella vita di buona parte della popolazione locale, è perciò naturale che le forme espressive estreme trovino non solo terreno fertile per diffondersi ma pure un campionario di umanità disposto a portare il fattore shock a livelli inusitati, irraggiungibili persino per i prime-mover di tali movimenti: così fanno, seppure in differenti spettri dell’universo metallico, formazioni storiche della scena come Masacre e Typhon, in entrambe le quali milita un soggetto chiamato Mauricio “Bull Metal” Montoya la cui etichetta Warmaster Records, forse non essendo il suo proprietario pago della violenza sonora udita nei nastri da lui incisi e/o pubblicati, ha a sua volta l’idea di rilasciare su vinile nel 1995 un bootleg dei Mayhem con in copertina la leggendaria foto del cadavere di Dead, prontamente scattata e diffusasi in giro per il globo.
Dalla tumultuosa Colombia insomma, non a caso sita a sud del supposto Paradiso a stelle e strisce, e dalla visione di una sorta di Euronymous in salsa piccante destinato ad una dipartita non troppo dissimile a quella del summenzionato vocalist svedese, il Black Metal trae nuova linfa per rafforzare la propria macabra mitologia; ed in mezzo a codesto baccanale vi si ritrova un ragazzino adolescente il quale, riservato e silenzioso già allora nonché con privilegiato da un passaporto americano rilasciato a Seattle, ascolta quanto prodotto dai vari Reencarnación e Parabellum e prende appunti. Il suo nome è Jason Weirbach, ed insieme ai fratelli Cesar e John Santa tira su un gruppetto prima battezzato Guillotina e subito dopo riconvertito in Inquisition, sotto il cui monicker arrivano celeri l’EP introduttivo “Anxious Death” ed il demo (dal minutaggio degno però di un full-length in piena regola) “Forever Under”: nient’altro che i primissimi vagiti di una bestia prossima a distruggere gabbie e catene, risalire il continente e da lì invadere l’ignaro pianeta.

Il logo della band

La cifra che da sempre contraddistingue il metallo nero al di là dell’Atlantico, dal profondo nord del Canada alla punta meridionale della Terra del Fuoco, è il senso d’isolamento diffuso più che altrove e dovuto alla lontananza fisiologica dall’Europa dove tutto ebbe inizio, il quale ha spinto ensemble e one-man band di ogni sorta a voler eguagliare le gesta transoceaniche con soluzioni all’insegna della radicalità, qualunque essa fosse (si pensi al Black/Death bestiale di Canada e America Latina, o al D.S.B.M. diffusosi negli in apparenza ridenti suburbia statunitensi). Serviva però qualcuno di doppiamente esule, passato da una realtà sì ricettiva ma scarsa di mezzi ad una sulla carta meglio predisposta eppure storicamente pigra verso novità non da essa concepite, per generare quella mostruosità nota agli appassionati come Inquisition; che la mentalità del Dagon rientrato nella natìa Seattle fosse differente dal gregge, orientata all’evoluzione di linguaggi preesistenti verso nuovi confini anch’essi da superare, lo si capiva del resto già da quelle registrazioni figlie dell’esperienza colombiana in cui i brani arrivavano a superare i sette quando non i nove minuti di durata, oscillando su ritmiche audaci e fraseggi purtroppo limitati dalla produzione casereccia la quale azzoppava gli sforzi del progetto facendolo somigliare un po’ troppo a mille altri nomi della zona.
Approdato quindi ora in una nazione dagli altrettanto risicati esponenti di alto livello -con l’unica differenza che là ad essere copiato è direttamente il corpus norvegese invece del brodo primordiale esemplificato dai Sarcófago-, il cantante ed axeman porta con sé la centralità della chitarra e la necessità di composizioni ambiziose, lontane da stilemi sentiti e risentiti come quelli in cui si barcamenano Judas Iscariot e Black Funeral: i finanziamenti per un full-length che affermi in via definitiva la visione di Dagon li mette dunque la piccola Sylphorium Records di Bogotà, mentre ad affiancare il nostro leader arrivano il misterioso quanto passeggero Debant (che alcune voci ritengono mai realmente esistito, mentre altre, non senza una punta d’ironia, estromesso di lì a poco per uso di sostanze) ed un drummer conosciuto come Thomas “Incubus” Stevens, destinato a formare con Weirbach un’alleanza indissolubile e dai pochissimi eguali nel genere.

La band

In mezzo a tutta la paccottiglia luciferiana in gran voga nello scenario nero latino, che qui trabocca da un artwork originale abbastanza raffazzonato cui seguiranno altri due schizzi non proprio eccellenti, l’idea degli Inquisition al fine di cucirsi addosso una nuova identità è quella di rendere il sound chiuso, ammuffito ed ovattato, secondo una strategia non poi dissimile da quanto realizzato illo tempore dai maestri della via greca e italiana al Black Metal. Si gioca quindi sui bassi togliendo invece respiro alla gelida aria nordica, come se “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult” non fosse soltanto un titolo (il primo di una serie di nomenclature apparentemente alquanto esagerate, ma che perfettamente esprimono il senso di eccesso responsivo prima accennato) ma un manifesto tematico in cui l’occultismo, ed in special modo la stregoneria ribadita dai vari intermezzi parlati, sono topoi inestricabili dalla musica: la quale difatti ricrea claustrofobici riti celebrati in profonde grotte vicine più all’Inferno che al mondo dei vivi, dove però non vi è paura degli orrori evocati quanto più il deferente rispetto dovuto loro dagli autentici adepti.
Per questo Incubus alle pelli limita abbastanza le bordate di velocità, ponendo così le basi al suo stile meccanico e tuttavia tremendamente personale, perfetto per intesservi sopra partiture ancora prive della pesantezza monolitica dei futuri lavori in studio ma già rese sinistramente ammalianti da quegli arpeggi che animano il refrain di “Those Of The Night”; e sempre per questo motivo la voce di Dagon, dal grugnito petrozziano emesso fino ad allora, si trasforma in un asettico latrato monocorde e del tutto privo di ogni reminiscenza umana, anch’esso non sfumato e curato come in futuro ma senz’altro già iconico nel bene e nel male. La ricerca di un mood ipnotico espressa attraverso stili vocali e batteristici tanto originali non va comunque a ledere una scrittura arrembante e parecchio fluida, come quella che conduce “Empire Of Luciferian Race” dall’iniziale palude doomish agli incastri di armonia e groove che ne sanciscono il perfetto finale, per poi inanellare catene di riff accattivanti lungo la riuscitissima “Summoned By Ancient Wizards Under A Black Moon” – come se agli strumenti vi fossero dei veterani consumati.
Sono del resto pochi gli episodi di “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult” a non urlare già a pieni polmoni il nome degli Inquisition, tra cui si annoverano ad ogni modo frammenti a sé stanti di non stereotipata sregolatezza quali la melodia acustica, a momenti folkeggiante, che si pianta nelle membra di “The Initiation”, così come lo sfogo di up-beat e pennate aperte che reggono la per così dire divertente “Journey To Infernukeorreka”, cui farà da contrasto il buio cavernoso che avvolge prima l’interessante esperimento simil Death/Doom “Solitary Death In The Nocturnal Woodlands” e poi la ben più evitabile divagazione chitarristica “Hail The Cult”, in quello che se vogliamo è un primo di numerosi send-off non sempre convincenti propostici da questa altrimenti indiscutibile macchina di morte sonora.

Non è affatto raro che i primi platter di gruppi capaci di formulare un sound inconfondibile finiscano infatti, in retrospettiva, col suonare ancora troppo poco centrati – specie di fronte alle opere successive che invece hanno marchiato a fuoco certi monicker nell’immaginario collettivo. Così come “Lugburz” risulta oggi il capitolo giustamente meno reclamizzato del percorso artistico dei Summoning, nonché esempio massimo di una tale e cruda realtà, allo stesso modo il debut a tutti gli effetti dell’allora terzetto di Seattle è rimasto adombrato da dei successivi sviluppi dove la produzione, non più tarata sui trasandati standard sudamericani, ha ingrossato a dismisura le sei corde di Dagon accentuandone le peculiarità e rendendo pertanto superfluo l’incarico di un bassista: questo a significare che, a venticinque anni dal suo rilascio, “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult” non viene probabilmente rispolverato dai fan di lunga data ansiosi di mostrare a quelli invece di primo pelo tutto il potenziale dell’act americano, ma che il suo scopo è semmai offrire uno splendido spaccato alternativo a coloro i quali hanno scoperto codesta creatura con il salto di popolarità arrivato con gli anni Dieci del millennio successivo alla sua nascita, e coinciso con l’alzata di sguardo del mastermind verso le ambigue profondità del cosmo ad oggi sublimatesi nelle luci ed ombre del celestiale Black Mass For A Mass Grave”.
Ebbene, secondo la logica lovecraftiana che vuole l’ignoto quale paura fondativa e di conseguenza luoghi come cielo e mare relegati ad inaccessibili antri di follia, allora rimettere sù l’esordio degli Inquisition significa volerli ritrovare nella loro speculare dimensione claustrofobica, asserragliati entro cunicoli di terra e roccia illuminata da flebili torce ove l’elemento umano non è terrorizzato osservatore dell’immensità bensì parte attiva negli unaussprechlichen kulten scanditi dal distaccato muggito di Weirbach; e per quanto ciò possa far sorridere, alla stregua delle occhiate intrise di leggero imbarazzo che riserviamo a vecchie fotografie di gioventù, occorre altresì tenere a mente che sono proprio le ingenuità giovanili e la loro accettazione a rendere gli artisti umani: e di conseguenza degni di qualcuno disposto ad apprezzare ciò che loro mettono al mondo.

Michele “Ordog” Finelli

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